Principio di inerenza fiscale: perché è così importante?
In questi ultimi anni, gli imprenditori avranno sentito parlare almeno una volta il proprio commercialista del cosiddetto “principio di inerenza“… Un concetto che ai più potrebbe apparire come astruso e concettualmente difficile da comprendere, ma estremamente importante da un punto di vista fiscale e nei rapporti con l’amministrazione finanziaria in tema di deduzione dei costi.
In realtà, il paradosso è che non esista nemmeno una definizione precisa fornita da qualche norma, decreto o sentenza particolare, che ci dica esattamente cosa sia il principio di inerenza e di come possa essere considerato ai fini puramente fiscali.
Sebbene però, manchi una precisa specificazione di questo concetto, è fondamentale conoscerne dettagliatamente i limiti entro cui potersene avvalere e, di conseguenza, dedurre i costi aziendali per la determinazione del reddito d’impresa, da lavoro autonomo, professionale e per qualsiasi altra tipologia di reddito tassato al netto degli oneri sostenuti; discorso analogo per la determinazione della detrazione IVA.
Vediamo, di seguito, in cosa consista esattamente il principio di inerenza e come lo stesso influisca nel calcolo delle imposte.
Indice:
Cos’è il principio di inerenza
Il principio di inerenza è una nozione di natura giuridica, con origine economica e risulta indispensabile per la determinazione del reddito di un’impresa o di un lavoratore autonomo e per il calcolo dell’IVA.
Come sappiamo, il calcolo del reddito netto di un’impresa, per sintetizzare al massimo il concetto, è dato da semplice sottrazione:
Reddito di impresa netto = totale ricavi – costi deducibili
L’inerenza è definita come la possibilità di considerare un costo deducibile e che, quindi, possa essere portato in diminuzione della base imponibile per il calcolo delle imposte (Reddito di impresa netto).
È comunque utile sottolineare come l’inerenza non trovi una precisa definizione a livello normativo, al punto che molti addetti ai lavori non lo reputino nemmeno un principio di carattere fiscale. Si ritiene, semplicemente, che sia una diretta conseguenza dalle norme generali che regolano la formazione del bilancio di esercizio, per farla breve, un concetto astratto del tutto scontato e sul quale non meriterebbe nemmeno perderci troppo tempo.
Tuttavia, comprendere perfettamente questo concetto e capire, in secondo luogo, come il Fisco lo applichi senza averlo formalmente disciplinato, può consentire agli imprenditori di essere consapevoli di quale sia la linea di demarcazione per cui un costo può essere considerato deducibile, e che potrà, pertanto, abbattere il reddito di impresa.
Possiamo affermare che il principio di inerenza consideri come costi deducibili, tutti i componenti negativi (differenti dagli interessi passivi) qualora risultino associati direttamente all’attività d’impresa, al suo sviluppo e alla sua crescita.
Da questo calcolo è escluso ogni onere di natura fiscale, contributiva e di utilità sociale. Di conseguenza, sono inerenti, e quindi deducibili dal reddito, solo i costi che hanno un collegamento diretto con l’attività svolta e che risultano connessi a ciò che produce i ricavi.
L’attuale orientamento pretende pertanto, per la deduzione, la presenza di un rapporto tra costi sostenuti e attività di impresa. In pratica, vengono escluse tutte le spese compiute dall’imprenditore che rientrano nella sua sfera personale o, comunque, di origine extra-aziendale.
Vista la mancanza di una precisa definizione, può anche accadere che la giurisprudenza ritenga, in taluni casi, parte dei costi non inerenti poiché di un ammontare spropositato rispetto alla logica economica dell’azienda. Una situazione che induce spesso il Fisco a pensare che dietro tali comportamenti si celi un tentativo di una violazione fiscale mediante la registrazione a bilancio di costi sostenuti per scopi personali e non per le esigenze dell’impresa.
La giurisprudenza si è occupata più volte, nel corso degli anni, del principio di inerenza, apportandovi diverse modifiche alla normative. Un esempio su tutti è l’inserimento, tra i costi deducibili, delle spese di rappresentanza e quelle sostenute per finalità promozionali.
Queste due tipologie di costo, non sono direttamente legate all’attività che produce un ricavo ma possono portare, verosimilmente, un incremento futuro in termini di vendita e rafforzamento del brand. Nonostante questo, l’attuale interpretazione fiscale considera questi costi come inerenti e, pertanto, deducibili dal reddito di impresa prima che l’investimento generi i risultati previsti e, quindi, possa essere considerato direttamente collegato ai ricavi prodotti.
Discorso analogo per quei costi relativi ai professionisti come il commercialista, l’avvocato o il consulente del lavoro che non sono direttamente legati ai ricavi ma che possono essere, ovviamente, essere considerati inerenti e deducili poichè risultano servizi indispensabili per la gestione aziendale anche se, di fatto, non generano alcun ricavo.
La Cassazione stessa si è espressa a più riprese sostenendo che “c’è inerenza quando è riscontrabile una correlazione tra il costo e l’attività svolta in concreto dal contribuente“.
L’onere della prova dell’inerenza dei costi
A tal proposito, la giurisprudenza di legittimità è molto chiara e ha stabilito come l’onere della prova dell’inerenza dei costi ricada, esclusivamente, sul contribuente.
Nello specifico è stata la sentenza n. 19600/2014 che ha precisato tale concetto, stabilendo che la prova dell’inerenza, in caso di contenzioso con l’amministrazione finanziaria, sia a carico del contribuente, anche in base al principio di vicinanza della prova.
Tuttavia, l’inerenza dei costi è, il più delle volte, facilmente desumibile analizzando la natura stessa della spesa, ossia, dal tipo di bene o servizio acquistato e dal suo collegamento con l’attività svolta.
In seguito alla sentenza n. 5374 dell’aprile 2012, la Corte di Cassazione ha ulteriormente rafforzato il proprio orientamento in materia, affermando che l’obbligo di dimostrare i fatti costitutivi la pretesa tributaria spetti all’amministrazione finanziaria, mentre gli oneri di provare l’esistenza di un fatto che comporta modifica, impedimento o estinzione della suddetta pretesa gravi sul contribuente. Questo, ovviamente, in caso di contestazioni da parte del Fisco.
L’orientamento generale viene applicato anche per provare la sussistenza del requisito di inerenza relativo ad un componente negativo del reddito. Di conseguenza, ai fini delle imposte sui redditi e dell’IVA, affinché un costo possa rientrare, in modo legittimo, tra i componenti negativi del reddito d’impresa, è necessario, da una parte accertarne l’esistenza e dall’altra comprovarne l’inerenza.
Il contribuente, in quest’ultimo caso, e a seguito della contestazione da parte dell’Agenzia delle Entrate, non si dovrà limitare a contabilizzare la spesa ma dovrà preoccuparsi di dimostrare che tale costo è collegato a fatti a lui riferibili in quando soggetto richiedente la deduzione.
L’inerenza quantitativa e il principio di congruità dei costi
Una questione, molto spesso, fonte di dibattito riguarda l’aspetto quantitativo dell’inerenza relativo a spese direttamente collegate all’attività di impresa. Se da un punto di vista qualitativo non c’è nulla da eccepire, il problema sorge, di sovente, quando tali spese assumono valori che appaiono, a prima vista, completamente sproporzionati rispetto alle reali esigenze e alle dimensioni dell’azienda.
Il punto focale della questione è rappresentato dallo stabilire quando sia possibile sindacare l’inerenza sotto il profilo dell’entità e della congruità della spesa. Una volta accertata la regolarità tra il tipo di spesa sostenuta e l’attività svolta, potrebbe essere necessario verificare quei costi che risultano, così palesemente, superiori alle necessità dell’impresa.
Situazioni che potrebbero essere il campanello d’allarme di un comportamento truffaldino messo in atto allo scopo di sviare la spesa rispetto alla finalità imprenditoriale a cui dovrebbe essere destinata. Si potrebbe, infatti, celare il tentativo da parte del titolare dell’azienda, amministratori, soci o altri soggetti, di utilizzare la spesa eccedente per soddisfare esigenze personali e godere, al contempo, di indebiti vantaggi fiscali.
La congruità della spesa dovrebbe essere sottoposta a verifica solo qualora risultasse, oltre che chiaramente spropositata, sostenuta per scopi che vanno al di fuori della sfera degli interessi aziendali. È opportuno sottolineare come con i termini “eccessiva e sproporzionata“, il legislatore vuole evidenziare una possibile deviazione della corretta finalità della spesa, ma non certo affermarne con certezza la mancanza di attinenza.
La giurisprudenza, in tema di inerenza quantitativa, ha consolidato col tempo un quadro normativo in cui il comportamento sospetto del contribuente si aggrava qualora siano presenti elementi indiziari connotati da requisiti di gravità, precisione e concordanza. In queste situazioni, se il soggetto non è in grado di giustificare i suddetti comportamenti, è legittimo procedere ad un accertamento analitico induttivo.
La Corte di Cassazione ha stabilito che spetta al contribuente dare prova dell’inerenza e della congruità della spesa, nonché degli oneri deducibili ai fini della determinazione del reddito della sua impresa. Inoltre, deve dimostrare la coerenza economica dei costi sostenuti rispetto all’attività svolta e, altresì, qualora richiesto dall’Agenzia delle Entrate, dei dati relativi a costi e ricavi inseriti a bilancio e nelle dichiarazioni.
Il contratto di sponsorizzazione e l’inerenza dei costi
L’inerenza dei costi per i contratti di sponsorizzazione è una materia piuttosto controversa e che tutt’oggi rappresenta una questione soggetta a numerosi interventi da parte della giurisprudenza. Prima di entrare nel vivo dell’argomento è importante inquadrare la natura di questa tipologia contrattuale.
Il contratto di sponsorizzazione non è disciplinato da una specifica legge, quindi viene considerato atipico. Si tratta, molto semplicemente, di un accordo stipulato tra uno sponsor che si preoccupa di pagare un corrispettivo per poter associare il proprio marchio o prodotto allo “sponsorizzato” che normalmente è una squadra sportiva, un atleta, una scuderia automobilistica, ecc.
Il contratto può riguardare lo sfruttamento dell’immagine di un noto personaggio pubblico, oppure, come già detto, di una società sportiva, con la finalità di aumentare la notorietà e, di conseguenza, la commercializzazione del prodotto o servizio pubblicizzato.
Secondo quanto stabilito dalla Suprema Corte, la sponsorizzazione del marchio e del prodotto comporta un innegabile e potenziale vantaggio economico per l’azienda detentrice del brand che potrà, di conseguenza, incrementare la propria attività commerciale. Tale dichiarazione è contenuta nella sentenza n. 6548 del 27 aprile 2012 e, da allora, è legittimo che i costi sostenuti per la sponsorizzazione possano rientrare tra quelli deducibili.
L’aspetto di maggior importanza, riguardante le spese di sponsorizzazione, è che deve sempre sussistere l’inerenza con l’attività prevista dall’oggetto sociale dello sponsor. Non è sufficiente sostenere dei costi pubblicitari per ritenere che questi siano inerenti e, pertanto, deducibili.
Per spiegare meglio questo concetto parto da un esempio pratico: il settore più sfruttato per pubblicizzare prodotti e servizi è quello sportivo, infatti, sono moltissime le aziende che decidono di legare il proprio marchio alle società sportive professionistiche, o dilettantistiche, firmando lauti contratti di sponsorizzazione.
Per poter dedurre gli oneri del contratto di sponsorizzazione stipulato, evitando di incappare in spiacevoli contestazioni con il Fisco, è necessario che lo sport e il territorio scelti, non siano direttamente legati ai ricavi dell’impresa, ma all’attività svolta dallo sponsor.
- Un’azienda che produce pneumatici può, tranquillamente, firmare un contratto di sponsorizzazione con una scuderia che partecipa a corse automobilistiche, oppure, essere lo sponsor di una gara rallistica;
- Un’azienda che ha come oggetto sociale l’erogazione di servizi assicurativi può sponsorizzare senza problemi qualsiasi sport e manifestazione, visto che la copertura per il rischio infortunio è presente in ogni attività sportiva professionistica;
- Non si potrebbero, invece, ritenere inerenti le spese di sponsorizzazione pubblicitaria sostenute da un’azienda, che produce articoli specifici per il nuoto, che decide di legare il suo brand ad una squadra di calcio;
- Allo stesso modo, non sono inerenti le spese di sponsorizzazione di una qualsiasi attività locale che lega il suo marchio ad una società sportiva distante parecchi km dalla propria zona di competenza. La pizzeria di Napoli può, senza problemi, sponsorizzare la squadra di calcio della sua città perchè sarebbe facile dimostrare che la veicolazione del suo marchio nella zona di Napoli potrebbe portare molti più clienti al locale rafforzandone, addirittura, il brand. Discorso opposto, se la stessa pizzeria sponsorizzasse una squadra dilettantistica di Bologna perchè, in tal caso, sarebbe, a dir poco, impossibile dimostrare che tale operazione possa portare dei benefici all’attività.
Nel caso in cui il contratto di sponsorizzazione sia oggetto di contestazione da parte dell’Amministrazione Finanziaria, e venga considerato come un costo non inerente l’attività di impresa, verrà eliminato dalle componenti negative del reddito e, pertanto, su tali importi scatterà la regolare tassazione con l’aggiunta di interessi e sanzioni per infedele dichiarazione.
Oltre che IRES ed IRAP, una contestazione in tali termini, comporterebbe anche una revisione della posizione in termini di IVA, rendendo indetraibile l’imposta per la somma imputata alla sponsorizzazione “farlocca”.
I falsi miti sull’inerenza applicata alla riduzione delle imposte
Stando alla definizione del principio di inerenza descritta nei paragrafi precedenti, qualsiasi costo strumentale all’attività svolta o, in qualche modo, collegato, non tanto ai ricavi, quanto all’attività che li produce, può essere portato in diminuzione del reddito lordo e abbassare la base imponibile sulla quale calcolare le imposte.
Fin qui tutto ok, il discorso fila anche liscio, se vogliamo, così come filerebbe liscio, teoricamente, uno dei tanti segreti che qualche esperto di Fisco e Finanza ha svelato, ovvero, che per sfruttare al meglio il principio di inerenza, è possibile ampliare l’oggetto sociale nello statuto inserendo “il massimo delle attività possibili” anzichè un breve e conciso oggetto sociale.
Il segreto sarebbe quello di implementare l’oggetto sociale con una serie di attività, ad integrazione di quella principale svolta dall’imprenditore. Sotto certi aspetti un po’ il “segreto di Pulcinella” perchè questo consiglio viene dato, di norma, da qualunque consulente per svariati motivi, ma non per sfruttare il principio di inerenza potendo quindi scaricare uno spettro più ampio di costi…
Si consiglia di non restare troppo specifici nella descrizione dell’oggetto sociale in quanto, in corso d’opera, i business possono modificarsi e cambiare; un’oggetto sociale troppo specifico renderebbe necessario, qualora si volesse spostare il proprio “core business“, l’intervento di un notaio per effettuare le modifiche attraverso un atto pubblico.
L’oggetto sociale rappresenta il programma economico dell’impresa e, normalmente, la sua descrizione viene fatta indicando la tipologia dell’attività (commercio, produzione, prestazione di servizi, ecc.) e il settore merceologico di riferimento.
L’inserire un oggetto sociale troppo ampio per sfruttare il principio di inerenza, non porta necessariamente dei benefici in termini di risparmio fiscale, secondo la teoria per cui, più ampio è l’oggetto sociale e più ampio sarà lo spettro dei costi deducibili che possono essere considerati inerenti l’attività.
Infatti, il principio di inerenza di un costo sostenuto dall’impresa, specie in fase di verifica fiscale, non si valuta tanto rispetto all’oggetto sociale, ma considerando concretamente l’attività svolta e le dimensioni, specie quando si parla di inerenza quantitativa.
E’ legittimo e, in fondo anche giusto, che ci debba sempre essere un collegamento tra la spesa sostenuta e l’attività svolta, effettivamente, dall’impresa. L’inerenza deve essere relativa a come vengono utilizzati beni e servizi acquistati, e quindi alla “ragione” della spesa contabilizzata, ed è sufficiente che tale onere sia riferibile in senso ampio all’impresa, quindi sostenuto per SVOLGERE UN’ATTIVITA’ potenzialmente redditizia.
Questo però non significa che inserendo nell’oggetto sociale 1.500 potenziali attività, si possano poi considerare inerenti tutti i costi riconducibili alle 1.500 attività dell’oggetto sociale, specie se l’impresa genera i propri ricavi solamente da 10 di quelle 1.500 attività.
In fase di verifica fiscale, l’inerenza dei costi dovrà essere valutata nel concreto in relazione all’attività, effettivamente, svolta e dalla quale si generano i ricavi, non da quella che “sulla carta” potrebbe essere praticata.
Chiaramente, la deduzione indebita di costi, giudicati non inerenti, da luogo a pesanti sanzioni a carico del contribuente. E non aggiungo altro…
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